CAPITOLO
5: SENTIMENTI E VALORI
La
madre di Gummy, Chiquita, un'anitra molto elegante che si tingeva le piume di
colori sgargianti, giocatrice e molto prepotente decisamente sapeva vivere.
Era un carro armato e si rendeva conto delle debolezze del figlio. Forse la
molla delle sue intuizioni era l'ambizione che aveva verso Gummy, suo unico
figlio, che non rispondeva come lei voleva ai richiami della vita.
Era andato a trovarla, e lei vedendo le sue occhiaie sempre più pronunciate
aveva attaccato a massacrarlo con supposizioni e domande indesiderate. "Scommetto
che non hai dormito stanotte". "Scommetto che sei in rosso in banca che non
paghi i tuoi conti in tempo e non apri la posta". "Che esci con della brutta
gente, che la tua casa è in disordine, che non ti tieni bene il pelo, che hai
un alito da condor perché bevi, perché parli con la mucca bipolare anzichè con
le chianine che conosciamo da una vita".
Poi rilevava il fatto che mentre andava a trovarla controllava i messaggi e
la segreteria telefonica quattro volte nell'arco di un'ora. E allora cosa serviva
impedirgli di usare il telefonino mentre le faceva visita?
Un giorno l'aveva beccato sui rituali. Praticamente scopriva tutti i suoi punti
deboli, la sua frenesia, mista alla catatonia di quando si sbatteva davanti
alla televisione e si ingozzava di gin e patatine. Non dava priorità a quello
che lo riempiva di energia. Secondo sua madre perfino Goofie era meglio di lui
perchè era sposato ed equilibrato ed era gentile con quella taccagna di sua
madre. Questa debolezza di sua madre Chiquita, di tirar l'acqua al mulino delle
madri l'aveva preso in contropiede. Non lo rassicurava sulla sua obbiettività.
Però questa sua capacità di provocarlo gli faceva piacere. Anche se aveva piume
al posto del pelo era una signora madre. Qualcuna di quelle provocazioni gli
rimanevano appiccicate addosso come una seconda pelliccia.
Gummy doveva ammettere a se stesso l'avvicendarsi sempre più ravvicinato dei
rituali e il disagio che provava ad uscire con animali del suo livello e invece
determinati a vivere come ad esempio le mucche chianine.
Ma anche la letargia non era una soluzione. Insomma sia il fare che il non fare
gli faceva venire l'ansia. Così nell'ottica del cambiamento aveva deciso di
elencare per scritto i suoi desideri più segreti, perché quella era l'unica
via d'uscita per allontanarsi dalla ripetitività e dalla noia senza fine e senza
speranza dell'assenza di progetti.
Come individuarli? Doveva ripercorrere il passato. Ripensare alla ricorrenza
dei sogni e alle sue scelte e alle sue paure. In fondo aveva notato che se non
si ricordava di averla già comprata, ricomprava la stessa cosa. Allora i desideri
e i gusti esistevano! Doveva annotarle le sue preferenze, così come le qualità
che più ammirava nelle persone e le situazioni che gli davano più energia. Tenerle
bene in vista. Sullo specchio del bagno, in cucina, sulla scrivania.
Nella foga aveva fatto anche un grafico di come era diviso il suo tempo fra
lavoro, sonno, amicizia, benessere, divertimento, abbrutimento e arricchimento
spirituale.
Naturalmente il lavoro occupava un posto spropositato, perché era l'unica realtà
che riconosceva anche se era svuotato d'energia. I talk show demenziali e i
quiz a premi stavano al secondo posto, le amicizie e il divertimento avevano
una porzione ridicola, inesistente l'arricchimento spirituale.
In fondo lui intellettualmente era al livello delle zebre e delle scimmie.
Come poteva affrontare la sua inquietudine esistenziale con delle specie che
non pensavano che a mangiucchiare fieno e a spettegolare invaghite com'erano
dai vip della foresta immaginando che loro non avessero preoccupazioni?
Non era vero che la vita non aveva seduzioni: Lovie, ad esempio lo seduceva.
Avrebbe richiamato Lovie.
Ma dall'altro capo del filo Lovie, da debole e inizialmente curiosa, dopo le
prime battute si era trasformata in scatenata ed ostile. Gummy la conosceva
bene la immaginava con la gola palpitante di rabbia intenta a sfogarla prima
di perdonarlo ed invece gli aveva chiuso il telefono sul muso.
Dove la pescava tutta quella determinazione? Gummy iniziava ad avere paura,
ormai sia di lei che di se stesso. Forse di tutto. L'isolamento si faceva pesante.
La divisione del suo tempo ormai era ridotta a lavoro, le ben note manie e il
sonno.
Alla sera tornava a casa e l'unica telefonata in segreteria era quella di Goofie.
Così se ne andavano insieme a cena o al cinema sbuffando e ruminando inutili
monologhi.
Goofie di volta in volta diventava più insofferente e rabbioso. Piantava sempre
delle grane inopportune che lo facevano odiare dagli altri senza ricavarne particolari
vantaggi. Ad esempio cambiava 10 volte di posto a teatro disturbando un sacco
di gente giusto per ottenere una migliore angolazione che non sapeva neppure
lui quale fosse.
Era infelicità tangibile e Gummy odiava tutto questo perché era timido. Non
che questo lo rendesse migliore degli altri. Era semplicemente una caratteristica
di autenticità.
I tipi delle specie che lui conosceva erano per lo più falsi. Forse lui non
era il massimo nei giudizi perché la sua estrema sensibilità gli attizzava il
pessimismo, ma tutto quello sdolcinato chiamarsi amore e strusciarsi di pelo,
piume e squame fra tipi che non avevano particolare affetto l'uno per l'altro,
gli tritava i nervi.
La falsità rendeva gli animali simili fra loro, ma secondo Gummy, se da una
parte li salvava in quanto parte di un gruppo, dall'altra li condannava alla
morte morale.
Perché in fondo erano prigionieri di una paura tremenda della diversità e quindi
della libertà di essere un po' strani, magari anche perversi, magari anche egoisti.
Che male c'era nell'essere tutto questo? Perché solo i valori positivi dovevano
primeggiare?
Perché doveva essere più accettato il fatto di essere uno schiavo delle immagini,
un fuggitivo come Goofie o un critico come Rènè, piuttosto che un contemplativo
come lui, Gummy? Pensava di se stesso che non aveva bisogno di molto per vivere.
O forse aveva bisogno di troppo per accontentarsi di una categoria?
Lui si sentiva diverso, forse doveva semplicemente armonizzare il controllo
della paura con la voglia nuovo.
Per la verità, tutti erano ammalati di controllo e di paura. Anche Gummy non
ne era indenne ma la voglia di vivere lo obbligava a capire che la vita bisognava
cercarla proprio dove affiorava la paura, per esorcizzarla a poco a poco, per
non esserne divorato come un panino da un bulimico sotto attacco d'ansia.
Ormai Gummy aveva indossato degli occhiali speciali che gli facevano vedere
tutte le bugie che intorno a lui si raccontavano, le vite non vissute, le energie
sprecate, le violenze perpetrate pur di salvare un'immagine. Ma quale? A lui
sembravano tutte superate perché erano lontane dagli istinti.
I più malati secondo lui avevano così poca fiducia in loro che non sopportavano
niente di non sperimentato. Per certi la vista di armi da fuoco a portata di
mano era un concentrato di ansia per la paura delle proprie reazioni in presenza
di un pericolo. Per altri le improvvise luci su fatti personali erano fonte
di vergogna incontenibile. Per altri ancora la lontananza da luoghi o affetti
rassicuranti come ad esempio una vacanza oltreoceano poteva scatenare crisi
di panico.
Questi animali sapevano di non sopportare l'ansia di emozioni che potevano far
loro conoscere nuovi se stessi e quindi da subito si riducevano a fare vita
di cortile.
Ma lui non poteva perché per lui la vita di cortile senza gioco e senza affetto
significava l'estinzione. Se doveva affrontare le paure, magari poteva farlo
anche parzialmente per non sentire tutt'insieme il peso di un eventuale rifiuto.
Però doveva farlo, doveva rischiare di cambiare.
La notte non riusciva a dormire e si calmava soltanto pensando al programma
di vita che si era proposto: cambiare carattere e cambiare quindi anche il suo
destino.
Non era quello che tentavano di ottenere gli psicanalisti animali dai pazienti
animali dall'inizio del secolo?
Lui lo avrebbe fatto diversamente: gli bastava liberarsi dalle ossessioni. L'intelligenza,
la bellezza, il privilegio lo avrebbero aiutato a sopravvivere. Non gli importava
se sua madre lo aveva allattato al seno oppure no. Ormai era quello che era
e doveva pensare al futuro. Alla sua età non era più possibile pensare che la
sua difficoltà di adattamento alla vita dipendesse dall'educazione ricevuta,
dalle colpe dei genitori, dalla loro insensibilità o dell'habitat di coetanei
subdoli o se era semplicemente egoismo.
Aveva passato pomeriggi interi in biblioteca per dare una risposta a questi
interrogativi. Ma nessuna scuola di pensiero sembrava poterlo fare.
A quel punto non gli importava più di scandagliare i perché. Voleva solo sapere
chi era e quali rimedi c'erano al suo malessere esistenziale.